Quotidianità

L’opinione più gettonata è che la quotidianità – potrei chiamarla routine, ma mi piace di più il nostro termine che rievoca un calore diverso – sia noiosa e quasi nociva.

Ci pensavo l’altro giorno, mentre mi preparavo un caffè alla solita ora, la casa solo per me e un mucchio di e-mail a cui rispondere. Io non definirei questo ripetersi ordinato di azioni noioso, lo chiamerei piuttosto rassicurante.

Dopo cinque settimane passate tra la mia vecchia cameretta e la meravigliosa Scozia ho capito quanto mi siano cari quei gesti ordinari a cui non diamo più peso. Forse è qui che sbagliamo, è questa la chiave che ci fa facilmente cadere in errore: non diamo peso a questa ciclicità.

Svegliarsi con l’odore del pane tostato, vedere la lucina della macchinetta che mi avvisa che posso scegliere l’intensità del caffè, accendere il pc per tuffarmi in una nuova giornata fatta di colleghi in giro per il mondo.

coffee

Chissà se anche loro rispondono alle mail con il respiro ancora caldo di sonno e il caffè in una mano. Casa. 

Possiamo disprezzare questo ripetitivo circolo, definirlo vizioso, ma in realtà lo cerchiamo. Anche in viaggio, mentre vediamo e respiriamo cose diverse, anche mentre ci sforziamo di parlare una lingua non nostra, in realtà non vediamo l’ora di chiedere le stesse cose per colazione, anche se le abbiamo assaggiate per la prima volta solo il giorno prima.

Siamo esseri che hanno bisogni di conforto, piccoli, intramutabili gesti ereditati da nonne, madri, antenati che non sapevamo neanche di avere.

Si riduce tutto a questo, a come nostra nonna faceva il caffè e a quanto familiare e antico sia il rumore del caffè che inizia a scendere cremoso lungo la torre in alluminio delle caffettiere tradizionali.

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Una donna

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Ho dormito poco e ho bevuto solo un caffè stamattina. Il rito del caffè, scuro e dolce, profumato come una promessa. Non lo bevevo prima, poi non ho potuto fare a meno di soccombere al fascino sociale della bevanda. Quell’oro liquido che da bambina non potevo toccare e che adesso, solo a stringere la tazzina tra le dita, mi fa sentire già un po’ più donna.

Una festa di laurea, ieri. Ho messo il vestito lungo a fiori, l’eyeliner, un bicchiere di vino bianco in una mano e una consapevolezza diversa nell’altra. Sto imparando lentamente a stare al mondo. A modo mio, s’intende, ma non mi spaventa più esserci, occupare uno spazio, ascoltarmi mentre faccio delle domande.

Forse è questo che significa essere giovani adulti: piantare i piedi a terra e familiarizzare con lo spazio occupato dal proprio corpo, dai propri pensieri, dall’aria che si sposta mentre gesticoliamo, accarezziamo, articoliamo parole sulla punta della lingua, sulla superficie delle labbra. Forse essere adulti significa non nascondersi più perché hai già imparato che non ne vale la pena, che alla fine ti trovano sempre.

C’erano delle lucine colorate nella terrazza del locale, proiettavano colori freddi su vestiti a fantasia, gambe scoperte, tacchi, bicchieri di vetro, vassoi d’acciaio. Il mondo degli adulti si dipanava morbido, senza sforzi in Piazza Bellini, a Napoli.

Forse, ma solo forse, l’età adulta è una consapevolezza che va e viene, per questo non si è adulti per sempre. Si alternano tutte le età in un solo giorno e finiamo per nasconderci, anche se sappiamo che ci troveranno.

Mi piace pensare che, almeno per una sera, a quella festa c’era una donna con un abito lungo e non una ragazza. Non so per quanti giorni ancora questa giovane donna si farà viva così: sicura, piena di cose da dire, ma il fatto di averla intravista mi fa sorridere.

Chissà se anche qualcun altro altro ci ha fatto caso.

 

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Ritorni

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Ieri ho ritrovato il mio blog. Come un lettore qualsiasi che legge un blog qualunque, a differenza del fatto che io sapevo già il finale. Sono passati cinque anni dal giorno in cui ho aperto questo pezzettino di vita al mondo e non scrivevo da troppo tempo.

Ho riletto delle mie paure, di quando ho preso l’aereo e mi sono trasferita, di quando passeggiavo ed ero felice. Una felicità semplice, ma che mi faceva sempre pensare. Provo tenerezza per la ragazza di qualche anno fa, vorrei accarezzarla e dirle che quel lavoro che non sapeva fare, quello che poi ha addirittura insegnato agli altri e poi odiato tanto, non c’è più.

Ora ha un nuovo lavoro, interessante, dinamico. Ancora non ci capisce niente, ma sembra promettente. Le direi anche che l’università l’ha finita. Sì, pure se lavorava e si sentiva sola durante le lezioni del sabato. Le direi che ha una famiglia adesso a Lisbona, che le cose vanno bene e che può andarne fiera.

Poi la rimprovererei. Perché non scrivi più? Perché non hai scritto per tutto questo tempo?

Ho smesso di scrivere perché ho pensato che non interessasse a nessuno, nemmeno a me, che i sentimenti non fossero sempre universali e che forse andassero vissuti così, senza parole. Ho avuto paura di non saper descrivere questi battiti incerti, di tremare davanti al giudizio, di non riconoscere le emozioni. Da qualche parte ho letto che si ritorna sempre dove siamo stati bene. Io oggi ritorno, senza orari, senza scadenze, senza promesse. Torno con le parole, le amiche di una vita, tradite, messe da parte, bistrattate in malo modo in nome di una realtà più pragmatica che va sempre di corsa.

Ritorno alle origini. Spero non mi manchino più le parole da oggi in poi.

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Tre caffè.

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Ieri sono arrivata alla conclusione che non importa dove ci troviamo, tutto si riduce alle cose semplici della vita. In questo caso tutto si riduce a tre caffè e tre ragazze che srotolano paure e storie nella caffetteria di fianco all’università. E mentre fuori fa buio dentro c’è un po’ più di luce.
Due italiane e una montenegrina. Se è vero che la felicità si può considerare tale solo se condivisa, lo stesso senso di sollievo è applicabile anche alle paure quotidiane. Agli scheletri nell’armadio. A tutti i “se” e tutti “ma” dell’universo.
Sono bastati tre caffè per sciogliere le paure, per ridere di noi stesse, per sentire nostalgia e mancanza di casa, per drammatizzare storie per poi sdrammatizzarne il doppio.
Tre caffè e una musica jazz di sottofondo. I sentimenti sono universali, e anche la voglia di prendere le nostre vite e farne una cosa bella, un unico, esteso atto di bellezza.
Uno di quegli atti intrepidi, coraggiosi, sentimentali, dolorosi, con violini di sottofondo, rumore degli aerei che decollano, rumore di risate soffocate e poi esplose.
Rumore di baci che si attaccano alla pelle, si perdono nei capelli e sulle ciglia.
Forse è solo questo che ci affanniamo a raggiungere.
E i tre caffè ci hanno fatto parlare come fossero vino.
E alla fine della sbornia era già buio fuori. Il petto più leggero, gli auricolari già nelle orecchie, i progetti già scritti a metà nella testa.

Anche le matasse più confuse si riducono alle cose semplici.

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Sto nuotando.

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Tra un mese esatto sarà un anno, un anno da quando ho messo vestiti, paure, speranze e una buona dose di incoscienza nella valigia e sono partita con un biglietto di sola andata.
Oggi piove e Lisbona è tutta vestita di grigio, è una pioggia testarda e costante ma senza rumore, senza tuoni, nè lampi. Anche la furia del cielo non è invadente, aspetta paziente che guardi alla finestra per accorgermi che lei c’è, che preferisce che io sia in casa, sotto le coperte, con un computer in grembo a scrivervi delle mie paure e dei sogni nel cassetto. Un cassetto che continuo ad aprire e a chiudere.
Oggi mi sento un po’ come a Capodanno, con la stessa nostalgia e voglia di fare, lo stesso cocktail micidiale che ci fa fare la lista dei buoni propositi e ci fa automaticamente redigere un resoconto di tutto ciò che è successo durante l’anno che sta per andarsene.
Il 25 novembre 2014 una ragazzina è atterrata all’aeroporto di Lisbona, pochissime certezze e quintali di interrogativi sulle spalle. L’eccitazione faceva spesso posto a delle lacrime timide che non avevano il coraggio di lasciare il posto dove nascono. Il posto dove nascono le lacrime. Chissà com’è, chissà dov’è, e non parlo del posto biologico. Me lo sono chiesta tante volte mentre ho socchiuso gli occhi pensando di non farcela.
Ho avuto e continuo ad avere alti e bassi completamente estremi. Nella stessa giornata potrei danzare libera su uno dei Miradouro con vista mozzafiato di Lisbona per poi tornare a letto e lasciarmi cullare da una tristezza viscerale.
Ho lasciato a casa l’equilibrio emotivo ed ora me ne vado in giro così, molto più vulnerabile, molto più sicura.
Continuo a non avere certezze, continuo a chiedermi se ce la farò, se riuscirò a mantenere la testa fuori dall’acqua. Continuo ad amare ciò che faccio e questo posto per poi sentire una fitta allo stomaco quando leggo delle insegne di ristoranti che si spacciano per italiani.
Continuo a non sapere la strada ma, a differenza di un anno fa, ora so che la strada la stanno facendo le mie scarpe. La sto percorrendo solo io.
E i miei quaderni pieni di appunti, fotocopie, frasi che risaltano qua e là, libri che implorano di essere letti sono tutti lì. E la sveglia suonerà presto, troppo presto. E avrò sonno presto, e anche domani mi stupirò di avercela fatta, di aver superato un altro giorno, di essere arrivata in fondo a quello che mi spaventa.
E forse la differenza è tutta qui. Novembre 2014 e ottobre 2015, non smuovo più la superficie dell’acqua gelata con la punta dell’alluce.
Ora mi tuffo. E ogni bracciata costa un po’ di fatica. E ogni secondo i polmoni lavorano di più. I muscoli si ribellano. Ma sto nuotando.

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Boccioli.

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Ci sono dei rari momenti in cui ogni cosa è perfettamente in equilibrio, perfettamente stabile, con un perfetto senso. Il cielo senza una nuvola ha il suo posto perfetto nel mondo, ma anche se avesse delle nuvole, anche se stesse trattenendo della pioggia, anche quello avrebbe un senso.
La mia prima lasagna fatta in casa, preparata seguendo scrupolosamente le istruzioni di mia mamma su whatsapp, è nel forno. Il mondo mi urla dolcemente che è sabato, che anche se tutti corressero io non dovrei farlo e che la vita è fatta di prime volte, primi sbagli. Primi piatti scotti, crudi, senza sale, un po’ bruciati. Prime volte che sono sempre infinite, milioni di prime volte, quando pensiamo di esser già grandi.
Pensavo a quanto potere abbiamo e a quanto lo sottovalutiamo. Potenzialmente ognuno di noi ha un potere curativo, un super potere intrinseco in ogni parola che possiamo pronunciare. Non succede sempre, ma a volte accade. Prendiamo delle parole, le offriamo come una carezza, e loro attecchiscono ad un cuore. Ne curano il terreno, lo rendono meno arido, meno acido, più aperto alla vita. Ai germogli. Alla primavera. Anche alla pioggia.
Ma lo dimentichiamo troppo facilmente. Ce ne ricordiamo solo quando usiamo le parole come pugnali, quando vogliamo lanciarle per ferire, quando speriamo che attecchiscano ad un cuore come la lama fa con le superfici morbide.
Non siamo più abituati a dare e ricevere gentilezze. E quando riceviamo una parola fragile, delicata, luccicante, tutto quello che sappiamo fare è commuoverci. Siamo impreparati, colti alla sprovvista. Non abbiamo parole per ricambiare.
E mi domando come sarebbe il mondo se sapessimo donare carezze così, anche agli sconosciuti. Attraverso i libri. Una mano che diventa reale, che trasforma i caratteri in grassetto in un movimento dolce e sinuoso che arriva dritto alla guancia del lettore. Come sarebbe il mondo così?
Come sarebbero le nostre labbra se potessimo pronunciare solo cose belle? Se potessimo solo muoverle in movimenti eleganti e flessuosi, se potessimo usare le mani solo per amare, e gli occhi solo per riempirli di bellezza, e di colori, e di gesti che si ripetono all’infinito ogni volta che la memoria ci tradisce.
Un mondo dove ogni cosa fosse sempre al suo posto, con il sole e con la pioggia.
Con il profumo della prima lasagna nel forno.
Come?

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Vi porto a… festeggiare con me!

santos

Giugno a Lisbona significa Santos, ovvero un mese di festeggiamenti il cui picco viene raggiunto il 13 giugno per la festa di Sant’Antonio. Lisbona è una città che conserva l’animo di un paese, e questo è uno dei suoi pregi più autentici. L’aria è diversa per le strade, ogni quartiere ha degli addobbi diversi, dei filamenti fluorescenti che si estendono da un balcone all’altro, bancarelle disposte ordinatamente in ogni angolo libero, camioncini dai colori improponibili, variopinti e vivaci come il più incantevole e insolito uccello tropicale. E i commercianti sorridono, intenti a preparare altre sardine, altro pane con chouriço, altra birra, altro, altro. E per due euro puoi avere una birra e un panino, il sorriso made in Portogallo è incluso nel prezzo. Anche i ristoranti diventano più informali e aggiungono tavolini sul ciglio della strada, distribuiscono pietanze come se ci si trovasse in famiglia, e non in un luogo pubblico. E il quartiere più incantato è anche il più antico: Alfama. Stradine strette e tutte in salita, muri che riflettono la luce magica della città e casse che urlano orgogliose e in festa canzoni vivaci che fanno ondeggiare le ragazze, mentre muovono i piedi e la birra a ritmo di musica. E quando i colori sembrano essersi assestati, quando gli occhi si sono abituati a quelle continue esplosioni, ecco sbucare da un vicoletto in penombra un gruppo di ragazzine adornate da bellissimi costumi tradizionali. E ancora altre, ed altre. Squadre diverse, costumi diversi. C’è una marcia, la marcia dei quartieri, una competizione in cui ogni quartiere, insieme al proprio stemma e al proprio costume, si esibisce in una delle strade principali, Avenida da Liberdade, in danze e canti popolari. E la folla si accalca, si appoggia alle transenne mentre contempla lo spettacolo. E le più piccole sognano già il giorno in cui potranno indossare quel costume mentre grandi e piccini le guarderanno sfilare con i loro corpetti di strass e pietre colorate.
E il buonumore chiama altro buonumore, si battono le mani a ritmo di musica, si prende un’altra birra mentre si mangiano ciliegie succulente. E la città non vuole andare a letto, e così anche il cielo l’aiuta. Sembra non ci sia buio in questa sera che sa quasi d’irreale. Solo musica, e pietanze calde, e grida, e colori, e danze, e sorrisi. Si dovrebbe vivere solo così, stupendosi di quanti colori possano esistere nel mondo, di quanto buono possa essere un panino, di quante persone possa contenere un quartiere fatto di pietre e storie antiche. Se possiamo fermare un ricordo possiamo fermare un po’ il tempo.
Ed ecco il fermo immagine perfetto della mia Lisbona senza tempo.

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Vi porto a… mangiare choco frito!

kayak

Ci sono fine settimana in cui tutto quello che ho bisogno di fare è restare a letto a sentire i miei muscoli oziare mentre mi crogiolo nel più sacrosanto dolce far niente. In quei tre giorni mi riservo la possibilità di essere una completa ameba senza sentirmi minimamente in colpa. Ma, per fortuna, sento anche il bisogno di fare qualcosa di diverso. In questo caso una di quelle cose che mentre la fai dici a te stesso “mai più”, ma poi quando completi la grande missione ti senti rinato (molto metaforicamente parlando, il tuo corpo in realtà vuole solo tornare a fare l’ameba).
Per farvela breve, ieri sono andata a fare kayak a Setubal, per la prima volta nella mia vita. Nessuno ti dice che ci vuole un training apposta per l’occasione, e così tu, come me, inizi pieno di fiducia e speranza la traversata di 3 kilometri e mezzo che ti separa dall’altra riva del fiume. Il vento nei capelli, il sole sulle gambe ancora chiare, le mani strette intorno a quel remo. Tutto pronto. Si parte.
Prendere il ritmo richiede un po’ di tempo, almeno se il vostro livello di partenza è zero come il mio. A metà strada vi sembrerà già di aver attraversato l’Oceano Atlantico e avrete un forte desiderio di lanciarvi dal kayak e raggiungere a nuoto, magari anche solo galleggiando, l’altra riva. Ma questo non è possibile, nel caso ve lo stiate chiedendo, e la vostra guida non ve lo permetterà. Ad un certo punto, ingenuamente, chiederete come si chiama la città sull’altra sponda. “Troia”. “Sorry?!” “Troia”. Sì, la città si chiama Troia e altre quindici persone che remano al tuo fianco gridano emozionate “Estamos quase à Troia!”
Ridere mentre si cerca di remare non è una buona idea.
Finalmente terra, sabbia, insomma un luogo in cui non si deve più remare. La sabbia chiara, il sole non troppo prepotente, una palla e quattro chiacchiere in un mix di lingue.
“Avete mezz’ora, poi si torna indietro”.
Ok, mi dico, mezz’ora per lasciar riposare le braccia. Non può essere così difficile il ritorno. E mentre questo pensiero nasce timido nella mia mente, un vento si alza ed increspa le onde del fiume. E così i nemici diventano due: le onde da combattere e il tuo corpo che vuole abbandonare la corsa già dopo venti minuti. Ed è stato in quel momento che ho pensato a me stessa come all’ultima sopravvissuta nel mezzo di una tempesta. L’unico modo per salvarmi è remare, portarsi a riva. Lo so, è stupido, ma la mia mente aveva bisogno di stimoli surreali.
Scorgo le prime persone a riva, vedo la sabbia, le case. Ci siamo. Mi trascino fuori dal kayak e mi lancio sotto la prima doccia mentre commento con gli altri le nostre più o meno scarse doti.
E che si fa ora?
Ma naturalmente si va a mangiare. E cosa mangi a Setubal? Semplice: choco frito. In due parole, seppie impanate e fritte da mangiare con qualche goccia di limone e patate fritte. Ma non pensate alle nostre seppie, piccole, carine, quelle con cui condiamo anche la pasta. No, questo choco è enorme e, di conseguenza, ogni pezzo è bello consistente e, secondo il mio gusto, saporito. Da quanto ho capito mangiare choco frito a Setubal è un must. Se non lo fai non sei nessuno e il tuo viaggio fin lì è stato inutile. Questo spiega perché la cameriera, appena ci vede seduti domanda:”Quindi choco frito per tutti?”
Come se qualche pazzo potesse ordinare qualcosa di diverso. E tu di certo non vuoi essere quel pazzo.
E l’ambiente è così alla mano: un tavolo enorme ricavato al momento unendo tanti tavolini, tovaglia di carta a quadretti bianchi e rossi, cameriere con la spilla “I love choco frito”, e sedici tra ragazzi e ragazze con i capelli umidi, un asciugamano addosso e le braccia stanche.
Lo consiglio? Decisamente sì. Tutto, il sudore, i muscoli che si ribellano, gli stimoli surreali, la contentezza di essere andati a Troia, il cibo, le conversazioni con perfetti sconosciuti.

Ed ora che siete venuti con me a mangiare choco frito, dove ce ne andiamo?

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Ritorni e partenze.

partenze

Tornare in Italia è sempre emotivamente più complicato di quello che immagino. Penso sempre sia semplice, mi immagino il soggiorno in patria come una piacevole vacanza dalla quale tornerò felice e riposata. E invece tornare a casa significa sempre ricordarsi ogni giorno cosa si lascia: il profumo di casa, la voce familiare della mamma, i luoghi del cuore, le amiche che condividono con te episodi incriminanti. E se tornare mi ricorda cosa ho di più bello, restare mi ricorda anche cosa non ho. Mi ricorda lo spazio che non ho per coltivare i sogni, per coltivare un po’ di futuro, qualche strumento in più. Coltivarmi una possibilità.
Ma tutte le motivazioni si sciolgono quando saluto i miei genitori in aeroporto. E non versiamo una lacrima, ma mamma si tradisce mentre faccio la fila per i controlli. Non avrei dovuto girarmi.
E i primi giorni sono i peggiori, sembra che tutta la routine costruita in sei mesi non regga più. Sembra tutta una farsa, una messa in scena, e tutto sembra urlarmi “ma perché non torni a casa?”
L’aria portoghese mi si rivolta contro con profumi diversi e io mi sento di nuovo estranea. Ma poi qualcosa succede. Qualcuno si accorge che sono triste. Qualcuno me lo chiede per poi rispondermi “But you have us” e allora un piccolo focolare si riaccende in mezzo al petto. Gli occhi riacquistano la capacità di riconoscere volti amici. La mente riacquista la capacità di fare piani, il cuore mette la scintilla dove ci sono solo scartoffie.
Ed è come un livido. Resta lì, ma poi cambia colore e non fa più male.
E penso alle parole di mia mamma sussuratemi all’orecchio:”Non sarà per sempre, vero?”

E me lo prometto silenziosamente con un appunto sul cuore. Non sarà per sempre salutarla dopo pochi giorni. Ma oggi no, oggi devo perdermi un po’, sguazzare nella nostalgia mentre conosco e mi conosco.
Ma no, non sarà per sempre. Come niente, del resto.

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Nella penombra.

nella penombra

Fondamentalmente sono una persona solitaria anche se so stare in mezzo alle persone. Ci pensavo oggi in ufficio e anche ora, mentre do un’occhiata alle verdure sul fuoco. Sono congelate, ora non vi impressionate e non pensate che abbia iniziato a cucinare davvero cose che richiedono abbastanza tempo. Sono solitaria per scelta, ma a volte anche per una necessità interiore. È come se avessi un timer, un orologio con il suo ritmo imperfetto dietro la nuca, come quei meccanismi usati per i carillon. Quando la corda si esaurisce bisogna lasciarlo un po’ a riposo,e così mi ritrovo da sola anche nel mezzo di una compagnia. Lo sguardo un po’ perso, concentrato altrove, come quando abbasso un po’ le persiane e mi godo la penombra. Ecco ogni tanto ho bisogno di stare all’ombra della mia anima, a pensare, a guardarmi, a guardare, a contare.

E all’ombra di me stessa ho visto tante persone andare e venire, e ho imparato a disconnettermi silenziosamente, a cercare di capirmi, a cercare di capire. E nella stessa penombra ho deciso di continuare gli studi, qui. Un’altra sfida. Lavorare e studiare cercando di continuare ad avere una vita. E non ho nemmeno mezza idea sul come farò, se ci riuscirò, se è una buona idea. Sono piena di se, ma d’altronde lo ero anche prima di partire. Ora sono solo diversi “se”. Ma il tempo sa giocare così bene, sa provocare. E così per scoprire la risposta devi solo stare alle sue regole e vivere. Tu decidi di vivere e lui decide di darti un altro frammento di risposta. Nulla di più, nulla di meno.

E ora, quale sarà la mia prossima mossa? Resto a guardare all’ombra di me stessa.

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